Un messaggio chiaro e una richiesta drastica: Amazon ha chiesto a un browser AI di smettere di usare il suo catalogo per effettuare acquisti al posto degli utenti. Non è una semplice disputa tecnica tra aziende, ma una schermaglia che porta alla luce questioni concrete sul ruolo degli agenti intelligenti nelle transazioni online. La scena è questa: un servizio di terze parti usa un browser “agentico” per navigare, confrontare prezzi e finalizzare ordini su piattaforme esterne — e il venditore finale si ritrova a subire l’impatto diretto sull’esperienza del cliente. Chi paga il conto della confusione? Lo raccontano gli operatori del settore: spesso è il marketplace che riceve lamentele, anche quando l’errore nasce altrove.
La mossa che ha acceso lo scontro
Amazon ha puntato il dito contro Perplexity e il suo browser Comet, definendolo una applicazione agentica di terze parti che opera sugli store altrui. Secondo il colosso dell’e-commerce, quando queste terze parti effettuano acquisti per conto degli utenti devono farlo con regole chiare e visibili: non si tratta solo di automazione, ma di responsabilità verso la esperienza utente. Amazon sostiene di aver chiesto più volte la rimozione del proprio marchio da Comet, motivando la richiesta con un presunto peggioramento dell’esperienza di acquisto e del servizio clienti percepito dagli utenti che interagiscono con il marketplace.

La richiesta non arriva in un vuoto giuridico: Amazon invoca la trasparenza operativa, cioè l’obbligo per gli agenti di dichiarare agibilità e limiti quando rappresentano l’acquirente. Un dettaglio che molti sottovalutano è la differenza tra una ricerca guidata da AI e una transazione effettiva che impegna pagamenti e resi. Se l’agente sbaglia, il consumatore tende a rivolgersi al venditore finale, non all’algoritmo che ha sbagliato. Questo spostamento di responsabilità è al centro della disputa.
Per smorzare le parti, Amazon cita esempi concreti: app di food delivery, siti di prenotazioni, compagnie aeree, negozi online. L’idea è che ogni fornitore debba poter scegliere se partecipare a canali di intermediazione gestiti da agenti esterni, e in che modo. Un fenomeno che in molti notano anche in Italia, soprattutto nei grandi centri dove l’e-commerce è più diffuso.
Perché questa battaglia interessa l’e-commerce e gli utenti
La questione va oltre la contesa tra due aziende: riguarda norme di responsabilità , reputazione e controllo dei canali digitali. I browser agentici stanno entrando in spazi dove finora le interazioni erano dirette tra utente e venditore. Questo cambia il modello di servizio: restituzioni, rimborsi e supporto clienti possono diventare più complicati se l’acquisto è mediato da un software che non è sottoposto alle stesse regole del venditore.
Un aspetto che sfugge a chi vive in città è la quantità di micro-errori che accumulano impatto: prezzi non aggiornati, tempi di consegna stimati male, opzioni di reso non comprese dall’agente. Il risultato è una percezione negativa che si riversa sul marchio originale, danneggiando la fiducia dei consumatori. Amazon chiede dunque regole che obblighino gli agenti a essere trasparenti sul proprio ruolo e a rispettare le condizioni imposte dai negozi online.
Allo stesso tempo la disputa apre interrogativi di concorrenza. Perché Amazon non reagirebbe allo stesso modo con altri attori come OpenAI o servizi integrati che potrebbero sfruttare la sua infrastruttura? Alcuni osservatori menzionano legami economici rilevanti — si parla di cifre consistenti che hanno legato fornitori cloud e grandi sviluppatori di AI — ma qui è importante restare cauti: sono ipotesi che richiedono conferme. Un fenomeno che in molti notano nel Nord Europa e negli Stati Uniti riguarda proprio il tentativo delle piattaforme di difendere la qualità percepita dei loro servizi.
Il nodo pratico è semplice: senza regole condivise, la fiducia tra consumatori, venditori e agenti digitali rischia di erodersi. Per questo molte aziende chiedono linee guida chiare, anche sul piano contrattuale e tecnico.
Cosa può cambiare e che impatti concreti ancora emergono
Lo scontro tra piattaforme apre scenari diversi. Sul piano normativo, potrebbero emergere richieste di regole specifiche per le app agentiche, obblighi di trasparenza e responsabilità post-vendita. Per i venditori, in particolare per i piccoli negozi online in Italia, questo significa nuove clausole da negoziare e possibili costi aggiuntivi per gestire un canale mediato. Un dettaglio che molti sottovalutano è l’onere operativo: il servizio clienti potrebbe dover preparare script e procedure per interagire con agenti automatici, non più solo con persone.
Sul piano competitivo, la mossa di Amazon può avere anche una funzione strategica: tutelare un modello di marketplace consolidato e limitare l’ingresso indistinto di intermediari non coordinati. In parallelo, si apre la domanda su come regolatori e settore tech intendano bilanciare innovazione e tutela del consumatore. Alcuni esperti suggeriscono soluzioni tecniche — API dedicate, badge di verifica per agenti affidabili, limiti alle azioni che un agente può compiere senza conferma umana — ma restano scelte da concordare tra operatori e autorità .
Infine, per gli utenti la conseguenza pratica sarà la qualità percepita del commercio elettronico: meno confusione sui pagamenti, più chiarezza su chi risponde per un reso, una garanzia di trasparenza che potrebbe diventare un requisito atteso. E mentre le aziende si confrontano, in molti stanno già osservando come cambiano le interazioni sui portali di vendita, anche in Italia: la battaglia tecnologica si traduce in decisioni che toccheranno direttamente la vita quotidiana dei consumatori.
